VINCENZO MEROLA | ALEA
Testo critico di Noemi De Simone
“…e per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura,
che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi.
Da questo credo io che derivi assai la grazia.”
(Baldassare Castiglione)
Alea
/’alea/ s. f. [dal lat. alea “gioco di dadi”], lett. – [sorte incerta] ≈ azzardo, rischio. ‖ caso.
● Espressioni: correre l’alea ≈ tentare la sorte.
La galleria ADDart di Spoleto presenta Alea, una selezione dei lavori più recenti di Vincenzo Merola, penna biro e acrilico, ultimo esito di una ricerca che si è snodata fino ad ora tra scrittura, pittura e disegno, tra blog e tele, pigmenti e byte, media analogici e digitali.
Gli aleatory works (lavori aleatori), come suggerisce la loro stessa classificazione, sono il risultato di una tensione tra le regole del caso – il lancio del dado che governerà quante velature dare o che colore selezionare – e le regole imposte a priori dall’artista. La sfida, sul terreno della carta o della tela, è tra il dettato asettico di un dado che cade per gravità su uno solo dei suoi sei lati o una moneta che svela solo una delle sue facce, e la continua tensione dell’artista nel perseguire un risultato esteticamente valido e coerente. Una costante fatica e ricerca di soluzione che pone i due avversari, la casualità e arbitrio, in un dialogo serratissimo: nei lavori a biro la fixed line (linea fissa) è il primo segno, il primo atto deliberato; negli acrilici, invece, è una gabbia cromatica di lettura ad accogliere le variazioni del caso. Il lancio del dado o della moneta virerà dunque la mano dell’artista su una o più velature o, nel caso dei lavori a penna, condizionerà l’andamento e il colore di ogni linea. Ciascuna serie di lavori può coprire anche diversi anni, portando l’artista a esplorare le infinite variabili all’interno di un’unica combinazione di regole.
L’opera finita si concreta in un disegno di netta pulizia, composto da linee verticali e dinamiche alterazioni di colore, più simili ad un codice da decrittare le opere a biro, più vibranti come una storia quelle ad acrilico. Una visione istintivamente globale legge frequenze. Il foglio è una macchina che registra una variazione, un segnale ridotto alla sua essenza. È suono o vibrazione? È musica o rumore? È naturale o artificiale? Da vicino, invece, è possibile apprezzare la riproduzione certosina su un tessuto naturalmente ricco di imperfezioni. La sensazione è vivida, tattile. L’esperienza è materica.
Merola ci offre, pura ed elegante come una formula matematica, la manifestazione estetica della volubilità del Caso e le tecniche di adattamento cui ognuno fa ricorso nella propria esperienza quotidiana. Tutto si fonde così armonicamente sul supporto, carta o tela che sia, da non riuscir più a distinguere l’opera del fato da quella dell’artista. A differenza dei primi lavori aleatori, non è infatti presente alcuna legenda che disveli le regole. Chi tra i due può quindi arrogarsi il titolo di autore? Quale principio ha costretto la mano dell’artista, quale invece lo ha sollevato dal peso della scelta e gli ha fornito la più congeniale delle soluzioni?
Sarebbe tuttavia riduttivo incasellare le opere di Merola come frutto di un lavoro esclusivamente cerebrale, senza tenere invece in debita considerazione la parallela ricerca sui supporti e i pigmenti, e la loro reciproca interazione. Le semplici ma inafferrabili regole che governano le sue opere astratte sono difatti suggerite in prima battuta dai materiali, ai quali l’artista si approccia con eguale sguardo analitico e con sete di risposta. Inevitabile è stato per Merola confrontarsi con i classici della manualistica e le antiche ricette medievali per poi procedere spedito e in autonomia nel suo viaggio, espandendo i confini di utilizzo dei pigmenti, dei leganti e delle vernici tradizionali, fino a sperimentare l’impiego di materiali più insoliti. Un lavoro di ricerca appassionante che lo vede ultimamente alle prese con l’acrilico e il tentativo di nobilitarne la performance estetica al pari delle tempere tradizionali. Ecco che assistiamo alle prime volte di un pigmento insolito, un legante inusuale, una tecnica povera su di un supporto nobile. La lotta di legittimazione e affermazione di quello che lì non doveva esserci, dell’inaudito e dell’inaspettato, della cosa non prevista, la vile penna a sfera sulla preziosa carta artigianale indiana, l’industriale acrilico con la dignità estetica di una tempera classica.
In 40 Dice Rolls and 140 Coats, ad esempio, vediamo la Creta di Champagne (carbonato di calcio naturale) mettersi in gioco con la tela di lino, dando vita ad impercettibili variazioni tonali, fino a quasi sparire in favore del proprio supporto. Quasi ci trovassimo di fronte ad una cronofotografia di Muybridge, infatti, i frame di bianco di titanio ‘fermano’ a favore di sguardo l’atto della velatura, permettendoci di assistere alla pittura nel suo nascere; ed è poi l’insieme delle sequenze a creare una storia in movimento. L’opera-controparte, 78 Dice Rolls and 267 Coats, un quadrato solo all’apparenza nero, mostra le proprie impercettibili variazioni da una riga all’altra a quell’occhio disposto a scavare nello scuro profondo del suo verde di ftalocianina, sperimentato qui per la prima volta in purezza.
Ecco perché le opere di Merola vanno sì osservate da lontano, nella globalità della loro narrazione, nell’intento di trovare la regola del tutto, ma necessariamente assaporate da vicinissimo, nei grumi tutti diversi di una carta artigianale intonsa ai bordi e mai uguale a se stessa – basta un bagno differente e il bianco vira al giallo – o nella velatura dell’acrilico o anche nel segno discontinuo di una comune biro da ufficio. Queste due nature complementari dell’opera di Merola mettono in scena l’essenza stessa dell’Arte, vile materia giocata tra regole e caos, la regola insieme con la sua rottura.